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Il design come linguaggio espressivo, la sperimentazione nell’ambito della scultura e della pittura, con suggestioni che spaziano dalla Light Art all’astrattismo, l’esperienza come interior designer. Sono queste le caratteristiche principali dell’universo creativo di Daniela Chionna, artist designer pugliese che ha esposto, tra le mostre personali e collettive, in diversi festival e manifestazioni artistiche di livello nazionale, tra le quali “SaloneSatellite”, nell’ambito del “Salone del Mobile” di Milano del 2002, la V Biennale del Libro d’Artista del 2019, “Light Art-Design-Contemporary Art” del 2022, al Nuovo Scavolini Store di Roma, solo per citarne alcune. Per la rubrica “Focus on artist”, Lobodilattice ha intervistato Daniela Chionna, approfondendo gli aspetti fondamentali della sua poetica. Com’è nato in te l’amore per l’arte e quali sono state le tappe fondamentali della tua formazione? Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia dove si è sempre coltivata la passione per l’arte. Mia madre era figlia di Raffaele Argentieri, noto scultore e pittore della mia città. Mio padre Luigi, ragazzo già determinato e di talento, lavorò come cartellonista cinematografico e grafico pubblicitario nella Milano degli anni ’50 e in seguito intraprese una carriera imprenditoriale senza mai trascurare la sua passione per la pittura e per il collezionismo. Negli anni ‘80, nella nostra casa di campagna, si organizzavano sovente delle cene dove si riunivano artisti locali e non, più o meno conosciuti, ma tutti con talento e capacità di argomentazione; un vero simposio animato dalla gioia della condivisione, ma anche dalla divergenza di idee quasi sempre foriere di accese e costruttive conversazioni. Nella prima adolescenza, sempre grazie a mio padre, ho scoperto le città d’arte e i loro musei, Firenze in particolare. Ricordo l’incontro con Pietro Annigoni, suo amico. Prendevano il caffè in un bar poco distante dallo studio del Maestro, e io ero lì, affascinata dalle parole e dal volto serioso e buono di questo grande artista. Trovarsi poi al cospetto di una sua opera era vertigine pura. Ovviamente, questi sono solo stralci di una memoria ben più ampia e variegata. Questo è l’humus in cui sono cresciuta e per questo ringrazio infinitamente i miei genitori e il loro modo di stare al mondo. Per quel che mi riguarda, avevo le idee chiare. Desideravo fortemente lavorare nel settore del design e dell’arredamento, e volevo farlo presto. Dopo il diploma, conseguito all’Istituto Statale d’Arte di Grottaglie (TA), tradisco le aspettative di mio padre declinando gli studi universitari, scegliendo di partire verso una breve ma appassionante esperienza fiorentina: fare pratica nelle botteghe artigiane situate lungo quella che adesso viene definita la “rive gauche” dell’Arno. Ho imparato molto in quel periodo, vivevo un tempo “anarchico”, e tra un furore giovanile e l’altro mi approcciavo ai rudimenti dell’ebanisteria e del restauro. Nel frattempo realizzavo plastici e tavole grafiche per gli studenti di architettura. Al mio rientro ebbi la possibilità, con mio fratello architetto, di lavorare nell’azienda di metal design di famiglia. Eravamo già impegnati in diversi progetti e nel frattempo partecipavamo a concorsi: “SUN” di Rimini, “Abitare il Tempo – Verona”, “Young e Design – Milano”, “Progetto Arflex – Milano”. Curavamo contatti con aziende che trattavano contract per interni e in particolar modo per gli esterni, settore dove l’azienda di mio padre dagli anni ‘60 agli anni ‘80 era leader nel Sud Italia. Non rinnego di aver avuto la strada spianata e con gli strumenti già a mia disposizione necessitavo principalmente di specializzazioni o corsi di formazione che mi permettessero di maturare requisiti tecnici per meglio supportare il mio lavoro. Decisi di frequentare il neonato Istituto per l’Arte e il Restauro di Lecce, simile per intenti a quello di Firenze con in più delle sezioni dedicate al mobile e al turismo. Fattore non trascurabile, considerando quello che, a distanza di vent’anni, sarebbe diventato il Salento.  Grazie al collegamento con alcuni affermati studi tecnici e imprese edili, ebbi l’occasione di dare inizio al mio lavoro di interior designer, professione che tutt’ora svolgo come freelance. Sognavo a occhi aperti guardando gli audaci progetti del Gruppo Memphis o dello Studio Alchimia. Alessandro Mendini, Ettore Sottsass, Riccardo Dalisi e altri erano le mie muse ispiratrici. Facevano quello che io volevo fare: fondere il design con l’arte applicata. Concentrai la mia attenzione sul mobile e sul complemento d’arredo, intesi come sculture funzionali: utilizzare l’arte, renderla parte del proprio vissuto, contemplare e usare la bellezza. Il motivo ispiratore era, come lo è tutt’ora, il mondo naturale e i suoi elementi. Forme armoniche e colori primari erano gli ingredienti caratterizzanti. La mia prima collezione prese forma grazie alla collaborazione con un gruppo di valevoli artigiani. Le loro officine erano le mie piccole Bauhaus, e questo mi piaceva molto, mi elettrizzava. La prima tappa fondamentale del mio percorso corrisponde al mio debutto. Fu un’esperienza tra le più significative: il Festival dei due Mondi di Spoleto del 1995, poi è stato un continuo fluire di eventi concatenati, dai quali è difficile stabilire demarcazioni. Sorprendente la sinergia e l’attenzione che mi fu riservata dagli altri artisti, dalla stampa e dallo stesso Gian Carlo Menotti.  Il Festival di Spoleto fu il mio trampolino di lancio verso Il Fuorisalone del Mobile di Colonia-Germania e di Milano, patria indiscussa del design. Milano per me rappresentava uno spazio ampio, il luogo dove interagire, proporre, apprendere, confrontarsi, contaminarsi, esserci e vi sono rimasta per un po’ di tempo, anche se non stabilmente. Tanti sono i ricordi legati ai vari Fuorisalone e alla vivace atmosfera vissuta durante quegli eventi: non capitava tutti i giorni di vedere Alessandro Mendini  giocare a ping-pong con Ron Arad su un tavolo disegnato da quest’ultimo, illuminati dalle lampade di Ingo Maurer, o sorseggiare uno spumante, mentre la musica di un dj set animava l’atmosfera di un  grande opificio completamente dedito al design d’avanguardia e ritrovarsi vis a vis con Philippe Starck. Al tempo – era la seconda metà degli anni ’90 – grazie al mio amico Arcangelo Bungaro, ormai punta di diamante nell’ambito del jewelery design, sono entrata a far parte della rosa d’artisti e designer della galleria ABC Milano, proponendo le mie prime opere